In seguito a un lieto evento, ho ricevuto in regalo diverse bottiglie di vino, anche importanti, tante delle quali, ahimè, convenzionali non proprio nelle mie corde.
Pertanto, per rendere omaggio alla gradita intenzione dietro a quei doni, ho iniziato a riflettere su come superare l’empasse generato dai miei gusti enoici in questo caso un po’ limitanti.
Poi una sera, indeciso su cosa stappare per cena, ho avuto un’illuminazione.
Memore delle divertenti serate di crescita enoica passate piĂą di 6 anni fa con il Total Black Tonight, un format di degustazione alla cieca ideato con alcuni amici, ho pensato di raggrupparle su di un ripiano insieme ad altre “cosette” che avevo giĂ in casa.
Perché?
Per farmele servire da Pula, a sua totale discrezione, coperte da una BTS (blind tasting sleeve per i profani) nei calici neri da degustazione.
Pensavo che almeno avrei potuto imparare qualcosa di nuovo e che comunque avrei testato i miei gusti senza essere piĂą di tanto condizionato nell’assaggio dagli stessi. Dico “piĂą di tanto” perchĂ© comunque so cosa ci sia nel lotto (poco piĂą di una trentina di bottiglie).
Ah, gli ho anche chiesto di provare a rispondere, esclusivamente con un sì o un no, a eventuali mie domande in merito, poste dopo aver bevuto almeno un paio di bicchieri, momento in cui il vino sarebbe stato versato in normali calici da degustazione liberalizzando almeno la componente visiva.
Beh, quella sera l’assaggio della prima bottiglia mi ha talmente divertito, oltre che scombussolato, che ho deciso di raccontartelo qui su Enoplane.com.
Inoltre, mentre scrivevo, il grande parlare che si è fatto circa la degustazione alla cieca organizzata da Luca Boccoli di cui ho letto su Intravino, mi ha fatto pensare che due nerd che leggessero questo tipo di post li avrei anche trovati.
L’assaggio
Ma passiamo a questo, ancora, sconosciuto vino.
Il primo vero pensiero, olfattivo, è stato “qui c’è del Riesling“. Il secondo, gustativo, anche. Oltre al fatto che per le “pompe” a cui da anni sottopongo Pula, la piuttosto bassa temperatura di servizio svelava la presenza del calice di un bianco non macerato. Mai me lo avrebbe servito “caldo” e viceversa. E poi comunque il bilanciamento delle durezze, come la tipologia del bouquet olfattivo, mi appariva piuttosto chiaro. Un rosato? Differente. E poi fra i “candidati” non ce ne erano.
Nonostante quest’uva di matrice germanica sia considerata una di quelle che maggiormente trasmettono al vino il terroir d’adozione, l’ho sempre ritenuta (e non credo di essere il solo) una delle bianche che piĂą inconfondibilmente lo marchiano.
Insomma, in questo caso difficilmente tra i profumi (o se preferisci la degradazione dei carotenoidi, che conferisce quella nota caratteristica di cherosene) e il sorso, minerale e acido, mi sarei potuto sbagliare.
Certo c’erano da considerare anche tutti quei vitigni “nordici”, tipo il Sylvaner, però non mi ricordavo ci fossero robe del genere nelle bottiglie del lotto, quindi…
Comunque rallentando un attimo, sono tornato a soffermarmi sulla dimensione olfattiva.
Scavando un po’ mi sembrava di sentire anche dei profumi piuttosto “dolci”, dispersi tra il tropicale e un filo di agrumato. Qui c’era dell’altro… Molto altro! Ma cosa? Chardonnay? Sauvignon? PiĂą il primo che il secondo. E comunque nel caso sarebbe stato raccolto talmente maturo da celare la sua tipica caratterizzazione erbacea. Sicuramente un piccolo passaggio in legno. Inoltre avevo di fronte un vino molto elegante, non stucchevole e giĂ discretamente complesso. Assolutamente giovane.
GiĂ a quel punto gli Dei della Degustazione, a causa di quelle prime impressioni partorite dal mio ego con eccesso di zelo, sono convinto se la ridacchiassero sotto i baffi. Ma davvero anni di cieche non mi avevano insegnato niente? Manco ad aspettare un attimo prima di aprire bocca?
Se immediatamente avevo pensato a uno dei 2 Riesling presenti nel lotto, l’alsaziano Riesling de David GlouGlou di Les Vins Pirouettes e Christian Binner (del quale non ricordavo l’annata ma comunque giovane) e a un altro esemplare della Mosella escluso per l’anagrafe e una presunta caratterizzazione territoriale assai differente da quella dei “cugini” francesi, giĂ dopo un minutino cominciavo a brancolare nel buio. Considerato il fatto che sto benedetto idrocarburo in realtĂ cominciava a non sembrarmi piĂą così preponderante.
E poi che pirla: mi ero scordato di fare caso al fatto che la forma della bottiglia non era alsaziana/renana e in nessun altro vino ricordavo ci fosse del Riesling. Bravo Andrea. Un vero campione di degustazione. Sigh!
“So che non posso ancora farti domande, ma a tuo parere personale, se chiudi occhi ti sembra ci sia del Riesling?” “Sì”.
A questo punto nebbia totale. Locciavo il bicchiere sempre piĂą nervosamente, cercando per un secondo pure di scorgere il tappo che però Pula aveva opportunamente messo in tasca. Che poi che senso avrebbe avuto barare? Nessuno, ma l’uscita dalla propria zona di confort spesso ci porta ad agire come non vorremmo, quindi mi perdonerò. Fallo anche tu, dai.
Per un attimo mi sono concentrato sul cercare di capire quale terroir potesse conferire caratteristiche del genere a un vino, la mineralitĂ su tutte… Poi mi sono reso conto che era una sfida impossibile, dettata da anni di elucubrazioni, anche divertenti, create ad arte su commissione de il Gatto e la Volpe, marketing e denaro, con l’aiuto del Pinocchio di turno, la psiche dell’uomo che indubbiamente ama farsi le pippe. Mentali eh.
“I terreni non rocciosi non danno vini minerali (il 99% delle volte). Così i suoli ricchi di argilla, limo o sabbiosi ma non rocciosi sono generalmente terreni poco rappresentativi se state cercando la mineralitĂ . Però c’è un ma: è necessario pensare come una radice e non come un pedologo (lo studioso della composizione, della genesi e delle modificazioni del suolo, ndr), perchĂ© alcuni terreni possono comportarsi come se contenessero degli elementi rocciosi.” Ci siamo capiti? Attenzione, non sto dicendo che il concetto di risconoscibilitĂ di un terroir sia un inutile feticcio, ma dinanzi all’immensitĂ della Terra e ad anni di macro generalizzazione, senza una reale contestualizzazione territoriale, temo si perda un attimino…
Ma passiamo oltre. Come direbbe il mio amico Endriu, citando Sangiorgi o Jacky Rigaux, il fantomatico vino era un po’ sfuggevole sulla lingua. Per giunta evidenziava un’aura di perfezione da me riscontrata in pochissimi vini bianchi naturali, che in quel caso sono praticamente sempre francesi. Discretamente grasso e davvero pulito. Per nulla verde. Altro aspetto che poteva sconfessare la presenza di molti vitigni.
Lasciando perdere qualche etichetta naturale proveniente da America e Australia, un Savagnin dello Jura no! Ne ho bevuti talmente tanti nell’ultimo perido che… Un… No. No. No. Uno Chardonnay di Borgogna? Sì, potrebbe essere. Ma porca puXXXna, a parte che da un Riesling a uno Chardonnay di Borgogna c’è un abisso e comunque vuoi dire che mi ha stappato alla prima l’ultimo Chablis Premier Cru ‘Beauroy’ 2019 di Philippe Pacalet? Ummm… No! Bevuto l’anno scorso durante il pranzo natalizio tra avvinazzati al RaieĂą, mi era parso un vino molto piĂą sussurrato, oltre che meno “fruttato”. Per non parlare del fatto che, ora che si sta scaldando, sto iniziando a sentirci anche un filo di surmaturazione.
Insomma, qua va a finire che è un vino naturale delle Alpi francesi, di quelle regioni come la Savoia o il Bugey che aspettavano di essere aperti nella mia modesta cantinetta e sui quali ho pochissime informazioni e altrettanto storico di assaggi. PossibilitĂ che sottolineerebbe ancora come il terroir venga troppo spesso mitizzato, escludendo uno dei fattori, ahimè è innegabile, piĂą importanti che concorrono alla genesi di un vino quando si abbatte la varianza dei fattori esterni con il lungo periodo: l’uomo.
Beh, a questo punto, dopo aver cambiato la tipologia del bicchiere constatando uno splendente colore giallo paglierino dai riflessi dorati e una certa opulenza, ho cominciato a fare qualche timida domanda. Completamente a caso.
“Italia o Francia?” “Francia… ah no, Italia. Scusa ero distratta”. E chi può biasimarla? Salvo qualche giustificazione o vaneggiamento a voce alta, ero praticamente zitto da 20 minuti.
Ecco! Oltre a pensare che nell’ultimo periodo, a causa di una forma d’assaggio libertina e spensierata, caratterizzata dallo sparare cavolate partendo dalla certezza dell’etichetta e quindi molto piĂą concentrata sul fare le pulci a qualcosa di conosciuto – per caritĂ anche giusta siccome l’assaggio del vino non è una gara a chi ce l’ha piĂą duro – stavo piuttosto tristemente buttando gran parte della mia memoria gustativa sviluppata negli anni precedenti, per quanto costruita sulle fondamenta “convenzionali” e inevitabilmente (lo dico in accezione positiva. Difficilmente potrebbero essere diversi) generalista dei corsi AIS e quindi peraltro viziata da un consistente numero di assaggi che potrei definire “tecnologici” (qui lo dico un po’ meno in accezione positiva). Per un attimo infatti ho anche sperato che i corsisti di oggi siano piĂą fortunati di me e si possano confrontare fin da subito con vini che, piĂą che mostrare la bravura di un enologo o il raggiungimento di un traguardo gustativo costruito a tavolino per ragioni che non saprei definire diversamente da economiche, rivelassero una propria identitĂ grazie al sudore e alla sensibilitĂ del vignaiolo.
Lo so, suonerò ripetitivo, ma senza una preparazione mirata, professionale e specifica, quanto può essere difficile assaggiare alla cieca un vino proveniente da chissà dove, tenuto conto della continua evoluzione climatica globale e della moltitudine di nuovi territori (e relativi produttori) che sembrano spuntare in ogni dove come funghi? Non diciamo cavolate, dai.
Sulla questione mi torna in mente il dialogo avuto diversi anni fa con Elio Altare. Il mitico produttore di La Morra affermava quanto poco senso avesse la figura di un esperto di vino universale, considerando anche solo le differenze tra i diversi lotti di un singolo vino: “8 bottiglie su 10 sono diverse dal vino idealizzato in produzione“ e “allargare troppo troppo la propria sfera di competenza non può far altro che generare confusione e incertezza“. Pensi abbia torto? Prego, fatti pure avanti che ho ancora un sacco di bottiglie da aprire con questo sistema e possiamo farlo assieme.
Comunque se il vino era italiano erano caXXi amari. Tra i naturali nel lotto non mi veniva proprio in mente chi e dove potesse produrre quella tipologia di vino (e poi c’era la questione del poco peso sulla lingua in rapporto al tipo di vino che avvalorava i miei dubbi). Difficilmente al sud come al centro e in assenza di una connotazione gusto-olfattiva “mediterranea” spinta. Ma anche qui stavo davvero riflettendo con cognizione di causa? Forse solo il Petit Bout de Lune di Les Petit Riens, ma quanto detto sino a ora cozzava un po’ con il caos spontaneo dell’unica annata assaggiata da me in passato. Se non sbaglio la 2015.
Praticamente non mi rimaneva che sperare che anche in una dimensione convenzionale il calice mi parlasse di un nettare dalla nitida ampiezza dei profumi e dall’identitario bilanciamento gustativo: “Nord Italia vero?” “Sì.” Che poi che domanda è? Ma per piacere…
Ok, le possibilità erano giusto un paio. Due vini che, anche se di millesimi differenti, nel corso del periodo di lavoro passato allo Splendido, mi è capitato di assaggiare più volte durante i servizi: il Gaia & Rey 2019 di Gaja e il Vintange Tunina 2018 di Jermann.
Siccome uno dei ricordi piĂą nitidi del primo era la sua immortale vena un po’ “legnosa”, mentre del secondo tabula rasa, rammentavo solo che fosse un misto di uve autoctone e internazionali, a quel punto ho annunciato, spaesato per non dire abbattuto: “Ă© il Vintage Tunina…”. Sia chiaro un filino di legno era, come giĂ detto, a mio avviso percepibile, eppure molto integrato e per nulla dominante, quasi nascosto.
“Bravo.” Bravo proprio no. Bravo chi c’è dietro semmai… PerchĂ© anche se ho perso volontariamente il filo conduttore di una certa viticoltura, posso affermare che il 2018 sia un grande vino. Quale storia mi racconta? Ecco, questo forse è l’unico problema: una inconfutabile grandeur di difficile collocazione mnemonica. O forse sono semplicemente sono io che non sono in grado di coglierla.
Brevi note su Il Vintage Tunina 2018 di Jermann
Il Vintage Tunina di Jermann è uno dei vini bianchi italiani piĂą iconici che ci siano. Dal sito internet della cantina… Nonostante le prime prove risalgano al 1973, nasce nel 1975 e giĂ nel 1979 viene battezzato da Luigi Veronelli come “Il Mennea dei vini italiani”. Storicamente parte come uvaggio delle migliori uve che raccolte tardivamente, a seconda delle annate, circa due settimane dopo la normale vendemmia su una superficie di circa 16 ha di vigneto coltivato sul Ronco del Fortino. Il nome Tunina si riferisce alla vecchia proprietaria del terreno su cui è sito l’originario vigneto ed è dedicato all’amante piĂą povera del Casanova, che era una governante a Venezia che per l’appunto anche lei si chiamava Tunina (Antonia).
Tipo terreno: marne prevalenti e arenarie appartenenti alla formazione flyschoide di etĂ eocenica caratteristiche della zona collinare con esposizione sud-ovest, nord-est.Â
Prodotto con uve: Sauvignon, Chardonnay, Ribolla Gialla, Malvasia (NdA: e Piccolit).
Tenore d’alcool: 13,5%
AciditĂ : 5,40 Ă· 5,60
Conclusioni
Mi è piaciuto? Sì, ho appunto “riscoperto” un vino di grande eleganza, per nulla stucchevole e di buona complessitĂ . Aiutato dalla forma di degustazione alla cieca, non mi ha per nulla annoiato… E non è poco eh. Mi sarebbe piaciuto anche non alla cieca? Penso di sì. Lo riberrei? AhimĂ© sì. PerchĂ©? Se mi è piaciuto perchĂ© non dovrei? E poi sarei curioso di misurarne il grado di stucchevolezza alla seconda bottiglia come l’evoluzione/durata nel tempo.
Lo consiglierei? Adesso sì, prima non lo so (non me lo ricordavo nemmeno…). Anche se ho sempre reputato che l’assaggio di certi grandi classici sia fondamentale nella costruzione del palato di ciascun bevitore: sarebbe assai ridicolo ridurre tutto a naturale o non naturale. Che poi uno, anche a fronte di certe cifre, ne abbia voglia è un discorso differente.
Cosa ho imparato da questo primo assaggio? Di certo mi sono ricordato di come a perdere la dignitĂ ci voglia un attimo e che bevo troppo poco una determinata tipologia di vini. Poi mi sono reso conto che una trentina di bottiglie, anche se coperte, soprattutto se di differente tipologia, sono un po’ pochine per auto-impostare un discorso del genere che risulta inevitabilmente sempre ancorato al ricordo delle medesime, ma che comunque assaggiare alla cieca è sempre una buona scelta e dovrò farlo piĂą spesso e in modo e in modo piĂą serio.
Ovviamente, vista la varietĂ dei vitigni e delle pratiche di cantina con cui il Vintage Tunina viene prodotto, non penso sia il vino ideale per riaffacciarsi alla degustazione cieca. Come scriveva Cesare Pillon su CiviltĂ del bere di ottobre 2000 “Nessuno finora se n’era mai reso conto, eppure è il piĂą straordinario vino da meditazione che esista. E non lo è in senso passivo (vino da bere mentre si medita), ma in senso attivo: è un vino che fa meditare“…
In soldoni sto cominciando a pensare che la degustazione alla cieca sia un ottimo strumento per imparare a guardarsi dentro, per tirare fuori la propria veritĂ gustativa (la mia al momento risulta un tantino confusa) piĂą che realmente identificare vita, morte e miracoli di una bottiglia quando non è stata contestualizzata in un insieme/segmento/territorio, per ricordarsi che la consapevolezza del bere è un piacere e non uno status, che l’importanza di un vino è data dalla autenticitĂ della storia che racconta, che “questo è un Barolo” sappiamo dirlo tutti, mentre “non ne ho idea, però mi piace perchĂ©…” ancora troppo spesso no.
Inoltre mi è venuta voglia di sottoporre, come in passato, questo semplice gioco a qualche amico per vedere cose ne esce fuori oggi e magari, spero, tirarmi su un po’ il morale. Oltre che per salvare il mio rapporto futuro con Pula che giĂ alla prossima degustazione alla cieca potrebbe mandarmi a spigolare.
E tu cosa ne pensi? Di questo post e della degustazione alla cieca in generale?