Attenzione: trattandosi di una degustazione alla cieca, le bottiglie di Barolo Perno Riserva 2016 di Elio Sandri, Barolo Fossati 2017 di Lapo Berti e Cornas Reynard 2020 di Thierry Allemand potrebbero anche essere state utilizzate solamente per la copertina con l’intento di sviare il lettore dall’identità della bottiglia aperta in questo episodio.
Dopo una prima degustazione alla cieca per me tanto spiazzante, ovviamente ho voluto continuare il “giochino” di cui ti avevo raccontato un paio di settimane fa qui, rimpolpando un po’ il numero di etichette nel lotto e dando disposizione a Pula di nascondermi durante il servizio anche la bottiglia, nonostante l’utilizzo di una BTS per evitare tutte le umane tentazioni del caso.
Perciò, in seguito ad alcuni assaggi non così significativi da essere riportati su Enoplane.com, poche sere fa, mi sono invece ritrovato nel calice nero un vino che, lasciando poco spazio alla mia immaginazione, mi ha subito ingioiato facendomi venire voglia di scriverne.
Perché lasciava poco spazio alla mia immaginazione?
Perché, già da una prima olfazione, contravvenendo al sacro principio delle cieche secondo cui “per ridurre al minimo le figure di m… si rende necessario parlare il più tardi possibile”, questa volta non ho potuto fare a meno di sentenziare: rosso giovane, Nebbiolo importante.
Sbagliavo anche stavolta? Per scoprirlo devi solo continuare a leggere…
Siamo d’accordo che ciascun degustatore, professionista o no, oltre ad avere sensi più o meno sviluppati a causa della genetica, risponda alle sollecitazioni scaturite da un qualsiasi assaggio in una maniera per certi versi unica perché certamente veicolata dalla sua storia personale e addirittura dalla condizione psicofisica in cui si trova nello specifico momento.
Senza stare a dilungarci troppo, formatasi a partire dalla giovane età nel corso delle prime scoperte enogastronomiche che la segnano in modo indelebile, la nostra memoria olfattiva a lungo termine funziona senza preavviso, senza possibilità di proteggersi. Le immagini olfattive, rispetto a quelle visuali, non invecchiano, rimangono intatte nel tempo e riaffiorano decenni dopo con la freschezza del primo giorno (da uno studio sulla memoria episodica olfattiva della Salento University). Lasciami pertanto dire che alla fine gli odori non sono altro che sensazioni che richiamano attimi di vita vissuta, o se preferisci emozioni.
Inoltre ho sempre ritenuto che, essendo per il 50% piemontese – mio nonno paterno, prima di trasferirsi in Liguria, per gran parte della sua vita ha commerciato vino in giro per il Nord Italia, principalmente nell’Astigiano – e avendo passato la mia infanzia in giro a visitare i tanti parenti sparsi tra le provincie di Cuneo, Asti e Torino, tutto ciò che proviene dalla regione sabauda eserciti su di me un fascino magnetico, certamente atavico.
Sono cresciuto giocando a mo’ di Lego con una cesta di mignon della Cinzano, la prima ciucca l’ho presa con dei fondi di Moscato, non ricordo un’infatuazione enoica precedente alle “barberone” d’Asti e la donna della mia vita, quella che il mercato destino ti può anche portare via, ma che comunque sai che rimarrà per sempre lei, è il Nebbiolo.
In realtà a volte penso che il mio “unico amore” sia il Barolo, però visto come di recente mi sono emozionato per un vecchio, per modo di dire, “Pietro” di Paride Iaretti o per il Barbaresco Riserva Asili 2004 del Genio di Neive, ribevuto a quasi dieci anni di distanza dall’assaggio di cui ti avevo raccontato qui in una dei primi post di Enoplane.com, ultimamente mi trovo un po’ restio a fare coming out.
Beh, senza che debba continuare con gli aneddoti, capirai bene quindi il perché, quando letteralmente snaso la concatenazione di alcune componenti olfattive, che so io la viola piuttosto che la rosa, il cioccolato, una certa speziatura più o meno morbida o il tocco balsamico, oltre a percepire un brivido lungo la schiena, in accezione positiva come quando ho sentito per la prima volta Paolo Nutini cantare dal vivo Rewind (che oltre a non essere piemontese è pure opinabile, ma mi piace lo stesso), mi sento sempre sicuro del contenuto nel calice. Come in questo caso anche senza la verifica della componente visiva. Poi è chiaro che le variabili sono infinite e un clamoroso errore sempre in agguato dietro l’angolo (vedi per esempio il Barbacarlo 2004 di Lino Maga di cui poi leggere qui). Ma chissene.
“Pula?” con un bel sorriso sornione stampato in faccia. “Sì, esatto. Bravo…” Ma quale bravo. Piemontese dentro semmai. Scherzo eh.
A quel punto, non avendo inserito nel lotto la stragrande maggioranza dei Barolo accumulati negli anni passati, fortunatamente, le possibilità non erano molte. Te le elenco in ordine casuale: il Barbaresco Rabajà 2018 di Giuseppe Cortese, il Barolo Perno Riserva 2016 di Elio Sandri, il Nebbiolo d’Alba 2021 di Segni di Langa, il Barolo Fossati 2017 di Lapo Berti, il Barolo Cannubi 2018 della Giacomo Borgogno & Figli, il Langhe Nebbiolo 2021 di Olek Bondonio, il Boca 2018 di Silvia Barbaglia, il Roero 2020 di Val Faccenda e il Rosso 2021 di Cascina Fontana.
Dopo l’automatica eliminazione dai papabili del Boca, dove è presente anche un 20% di Vespolina, e del Rosso di Cascina Fontana che ricordavo essere un imprecisato potpourri di tante varietà, siccome ultimamente sto cercando di abbandonare la compulsività di “locciate”, sorsi e olfazioni a favore di un numero minore di gesti enoici, così da aumentare il mio livello di concentrazione durante ciascun assaggio cercando di riflettere davvero su cosa mi sto infilando in bocca, un concetto che ho sentito formulare per la prima volta da Nicola Perullo in un episodio del podcast Juice It Up, sono tornato a soffermarmi una seconda volta, con calma, su quello che avevo nel bicchiere.
Cosa avevo nel bicchiere?
Un vino d’indubbio valore, al naso, anche se non ancora particolarmente complesso, e in bocca, dotato di tutti quei crismi che mi avevano subito fatto pensare all’uva Nebbiolo in una delle sue rappresentazioni più “alte”. A una struttura considerevole si opponevano felicemente un tannino vivo, una discreta acidità e un finale lievemente amaricante che non ne inficiava la grande godibilità. La speziatura appariva “scura”, di certo non c’era “vaniglia”, probabilmente un lungo passaggio in botte grande, se in barrique assolutamente neutre. Buono e funzionale al raggiungimento di un nuovo equilibrio il potenziale evolutivo.
Da queste brevi note puoi bene immaginare il perché nella mia testa avessi anche scartato i due Nebbiolo, entrambi, per quanto a mio avviso dotati di diversi elementi che li collocavano agli antipodi tra loro, vini che dagli assaggi di annate passate, ricordavo molto più scorrevoli, meno impegnativi e più o meno pronti. Tra l’altro, anche se non te ne ho mai raccontato su questo blogazine siccome era in un a fase di rinnovamento di tutta la cantina, Olek sono anche stato a trovarlo e perciò ero proprio sicuro che quella non fosse una sua bottiglia. Ah, anche il Roero, all’incirca per gli stessi motivi.
Quindi, avendo ristretto il campo a un tris di Barolo di cru differenti e a un solo Barbaresco, adesso sì che poteva avere senso andare a cercare un micro-territorio, riflettere su un’ipotetica annata o altri aspetti del genere. Tra l’altro, grazie a qualche mese di studio intrapreso quando, per l’unica volta della mia vita, mi ero convinto a partecipare, con anonimo piazzamento, a un Master AIS, sto parlando di quello 2014 sul Nebbiolo a Torino, oltre che a un nerdaggio che solo ultimamente ho tralasciato, non c’era neanche troppo bisogno di ricorrere alle numerose risorse scritte che comunque avevo a portata di mano in casa.
Comunque… Il Barbaresco lo escluderei subito. Non tanto per la storica dicotomia secondo cui, a causa delle commistioni tra rispettivi macro-terroir e disciplinari, il Barolo dovrebbe sempre apparire come un re scontroso e palestrato mentre il Barbaresco una regina profumata ed elegante, quella molte volte mi ha deluso, piuttosto per una serie di considerazioni che vado a elencarti di seguito.
Rabaja è un maestoso cru, che si estende con una certa uniformità dal bricco più alto di Barbaresco (311 metri) fino ad un fosso all’altezza della fine del Camp Gros della Martinenga (la parte del Rabajà storico), poi volge leggermente a ovest e scende verso una zona denominata Trifolera, cambiando esposizione e offrendo terreni sempre meno adatti alla coltivazione del nebbiolo. Complessivamente esposto a sud-ovest, tranne la parte che guarda a sud, confina a nord con il Moccagatta, a est è delimitato dalla strada provinciale Alba-Acqui, a sud tocca la Trifolera e a ovest la Martinenga e gli Asili… Si tratta senza dubbio di uno dei vigneti più noti e celebrati di tutto il Barbaresco, nonché dei più dibattuti… II Rabajà è contemporaneamente elegante e potente, fine e di razza, longevo ma anche accattivante da giovane; un grande vino che ha nell’equilibrio la sua dote migliore. (da Atlante delle Vigne di Langa, Slow Food Editore, 2020). E che, aggiungo io senza scoprire alcunché, può talvolta essere confuso con alcuni Barolo di Barolo e La Morra.
Dall’Enoteca regionale del Barbaresco sappiamo poi che nell’annata 2018 tra la fine del mese di maggio e l’inizio di giugno c’è stato un periodo nella nostra zona viticola segnata da numerosi temporali, che hanno portato copiose piogge che hanno messo in difficoltà i viticoltori di un vigneto punto di vista gestionale. Lo sviluppo della stagione estiva… accompagnato da un lungo periodo di bel tempo stabile, ha favorito la maturazione delle uve. Il caldo si è protratto per tutto il mese di settembre e l’assenza di precipitazioni ha garantito un’ottima salute delle colture. Le gradazioni zuccherine sono aumentate nell’ultimo periodo della stagione come si è visto un’accelerazione della maturità fenolica, che ha permesso di arrivare a vendemmie con ottimi parametri. I vini ottenuti sono armonici, di ottima bevibilità, di buona struttura e colore: la qualità e la quantità di sostanze fenoliche assicurano un’ottima predisposizione all’invecchiamento.
Sii sincero: stai pensando che in realtà quanto sopraesposto potrebbe anche corrispondere, vero?
Ecco, provando a confrontare questa manciata di informazioni con un paio di assaggi passati di altri millesimi della stessa etichetta, nel bicchiere sembrava esserci un peso maggiore sulla lingua rispetto a ciò che mi sarei aspettato. Seppur dotato, come già detto precedentemente, di acidità percepibile il ritorno gustativo del suo equilibrio, non così “verticale”, mi portava lontano dai vini della Giuseppe Cortese, cantina fondata nel 1971 che ancora oggi produce un Barbaresco davvero tradizionale giocato su “freschezza ed eleganza“, facendomi pensare ad altro. E già un’idea abbastanza nitida sull’identità dello sconosciuto vino mi si stava palesando nella capa.
“È un Barolo, ma di certo non il Cannubi, vero?” “Sì.”
Perché non il Cannubi? Perché, proprio pochi giorni fa, ho avuto il culo di assaggiarlo sulla terrazza della Borgogno in centro a Barolo e, senza stare a dilungarmi, più pronto e “sospeso”, non ci azzeccava molto con quello che avevo bel bicchiere.
Bene, non rimanevano che due vini. E potevo anche concedermi un terzo assaggio prima della figura di m… verdetto.
Intanto sappi subito che di Lapo Berti non ho mai assaggiato nulla. Per dirla tutta non ricordo nemmeno di come ho scoperto della sua esistenza. Rammentavo solo che curava un pezzo di vigna concessagli da Roberto Voerzio o Enzo Boglietti, due produttori da cui peraltro aveva fatto esperienza, e che un paio di anni fa, complice una due giorni a Torino, avevo provato a passare a trovarlo a La Morra sulla via del ritorno, ma a causa dell’inconciliabilità dei rispettivi impegni non se ne era fatto nulla. Il suo Fossati 2017 l’avevo successivamente recuperato tramite un amico enotecario.
Su Elio Sandri al contrario pensavo, e penso, di conoscere, almeno superficialmente, vita, morte e miracoli. Nel caso ti sentissi lacunoso, ti basti sapere che da qualche anno, forse più all’estero che in Italia, si è affermato come uno dei paladini del Barolo più schietto e autentico, un artigiano che partendo dal rispetto della vigna sa accompagnarne il frutto in bottiglia tirando fuori capolavori di austerità che non temono Crono o altri dei meno nobili. E sebbene Ian D’Agata nel suo nuovissimo libro, scritto con Michele Longo, dal titolo Barolo Terroir ne definisca il Barolo come “molto tradizionale, corposo e profondo, che si presta molto bene all’invecchiamento”, personalmente fatico a fissarmelo nella memoria come un “vinone”, preferendo ricordarlo attraverso un qualcosa di compreso tra aspro rigore ed essenzialità, a volte anche un po’ divisivo proprio a causa di un’anima che potrebbe apparire ai più sin troppo scontrosa.
Per esempio il suo Riserva “Perno” 2013 me lo ricordavo come un Barolo dal naso affascinante, che dopo un po’ di tempo dall’apertura tira fuori diverse sfumature cioccolatose e balsamiche, ma che per quanto riguarda la bocca ti costringe a riflettere su quanti anni ci sarebbero voluti prima che risulti pronto, se mai lo sarebbe stato…
Ebbene, tornando al misterioso vino, nel caso te lo stessi chiedendo, non mi sembrava assolutamente nulla di modernista, ma neanche di troppo tradizionale. O meglio, l’uso del legno (o qualche altra sfumatura) non mi appariva come un tratto distintivo di alcuna corrente barolista, passata o contemporanea. Il tannino appariva serio e ben integrato. L’annata madre me l’immaginavo piuttosto calda, proprio come la ’17 per esempio, ma in quel caso il produttore era stato chiaramente un manico nel regalargli beva e profondità. Inoltre il leggerissimo amaro della chiusura… No, quello mi veniva proprio difficile ipotizzare a cosa fosse dovuto continuando a ragionare solo superficialmente. Dai, non pressarmi. Prima di sbilanciarmi ho bisogno di riflettere un attimo sui cru dai quali provengono i due superstiti.
Anche se, generalizzando alla grande, i Barolo di Monforte, divisi tra la Formazione di Lequio e le Arenarie di Diano, vengono considerati più alcolici, robusti e longevi, mentre quelli di Barolo e La Morra, grazie alle Marne di Sant’Agata, spiccano per profumi ed eleganza, in realtà la questione territoriale è molto più complessa. Su Fossati e Perno nello specifico però ricordavo molto poco e pertanto ho dovuto ripassare.
Il mistero dietro a Fossati, il cru diviso tra Barolo e la Morra, sta nel fatto che, nonostante la quota altimetrica paragonabile in alcuni punti a quella del confinante Bricco delle Viole, la piena esposizione al sole del mattino e alle caratteristiche morfologiche del suolo che sembrerebbero favorire freschezza ed eleganza, i suoi vini risultano essere storicamente “pieni” e dal tannino importante. Basti pensare agli esemplari prodotti dalla già citata Giacomo Borgogno e figli, dall’irraggiungibile, anche per quanto riguarda i prezzi, Roberto Voerzio o da Enzo Boglietti… “Ok, è il Barolo Fossati 2017 di Lapo Berti? Che vino!”
Pula: “Oh, finalmente. Almeno adesso ce lo gustiamo.” Severa ma giusta. Cin cin.
Chi è Lapo Berti
Lapo Berti nasce negli anni settanta a Meldola, in Romagna. Decide di dedicarsi al vino circa 25 anni fa, quando si accorge che assaporarlo non gli basta più.
La prima esperienza la fa da Fattoria Selvapiana, nel Chianti Rufina, per poi spostarsi dopo tre anni da Corzano & Paterno, a San Casciano in Val di Pesa.
Ma il suo futuro è in Langa e, anche se non se ne è ancora reso conto, parte alla volta di La Morra dove inizia a lavorare prima con Roberto Voerzio e più tardi con Enzo Boglietti.
Eppure, sente che non è ancora il momento di fare da se, manca ancora qualcosa. Si dirige quindi in Borgogna, dove lavora con Nicolas Potel e Michel Picard, per poi intraprendere una serie di viaggi in Australia che perdura ancora oggi. A fare cosa? A faticare alla corte di enologi del calibro di Sthepen Pannell, David Bicknell e Steve Webber… In tutto ciò si iscrive più volte a diversi corsi di agraria, enologia e viticultura in giro per il mondo senza mai terminarli, limitandosi ad apprendere quanto gli poteva essere utile per l’obbiettivo che incomincia a formarsi nella sua testa: produrre grandi vini in un territorio che reputa straordinario. Quale territorio? Barolo ovviamente.
A quel punto grazie al rapporto di amicizia con Enzo Boglietti si stabilisce a La Morra e… Il resto puoi immaginarlo da solo.
Conclusioni
Mi è piaciuto? Ovvio, dai. Il Barolo Fossati 2017 di Lapo Berti mi ha fatto “scoprire” la visione liquida di un uomo che già oggi, sono convinto, ha molto da raccontare circa un territorio che, come ti ho già detto, amo alla follia.
Mi sarebbe piaciuto anche non alla cieca? Lo riberrei? Lo consiglierei? La risposta è sempre la stessa: ovvio che sì.
Cosa ho imparato da questo assaggio? Non molto. Nel senso che, per quanto rimangano vere tutte le perplessità già espresse nel precedente episodio su quanto questa forma di assaggio non sia una vera cieca, credo sia lapalissiano che dinanzi a un campione geograficamente così circoscritto lo studio di terroir e connessi diventi assai sensato e fondamentale permettendo di svelare sfumature altrimenti inaccessibili. Dettagli che possono solo aumentare la comprensione di quello che c’è nel bicchiere e quindi il suo godimento. Rimane altresì vero che per quanto riguarda il vino le variabili sono infinite, non sempre codificabili efficacemente (soprattutto per me), mentre la componente umana si conferma fondamentale. E poi te l’avevo detto che questo è un Barolo lo sanno dire tutti, no? Quale è tutto un altro paio di maniche. Si fa per dire eh.
Mentre terminavo la bottiglia ho continuato a pensare che avrei dovuto telefonare al mio amico Yuri, il volto dietro a… Come? Non ti ho mai parlato de Il Vinoso, l’enoteca di Dogliani? Perdonami, ma ci sarà tempo. Stavo dicendo: … per chiedergli di aiutarmi a riprendere in mano la coltivazione di una vera passione che tristemente stava annegando nel mio recente pressapochismo. Se ciò porterà a qualcosa di buono, sarai il primo a saperlo.
Ah, nel caso ti capitasse di assaggiare un vino di Lapo Berti, non scordare di farmi sapere come lo hai trovato.
Nato a Genova non troppi anni fa (più o meno), passo l’adolescenza a chiedermi perché abbia sempre preferito un raviolo cotto sulla stufa a un’Exogino, o ancora cosa mi avesse spinto, ancora infante, a scolarmi tutti i fondi di Moscato d’Asti lasciati incustoditi dagli adulti, dopo il brindisi di capodanno, incappando nella mia prima ciucca. Intanto, diventato prima Sommelier Professionista AIS e poi Assaggiatore ONAF, dopo svariate esperienze nel mondo della ristorazione, tra cui il servizio dei vini al ristorante “La Terrazza” del Belmond Hotel Splendido a Portofino, dall’ottobre del 2016 sono entrato a far parte dell’Elenco regionale degli Esperti Degustatori dei Vini D.O.C. presso la Camera di Commercio di Genova per poi bla bla bla… Perdonami, mi sto annoiando da solo. Beh, ti prego di mantenere il segreto, ma sappi che ancora oggi, nonostante sospetti sia colpa degli uomini della mia famiglia, del nonno paterno, commerciante di vino in giro per il nord Italia, di quello materno, agricoltore, combattente e scrittore, e di mio padre, agronomo mancato con il tocco per la fotografia, continuo a chiedermelo qui su Enoplane.com.